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Il potere delle domande nel plasmare il futuro

Decision Intelligence Processo decisionale Business Intelligenza Artificiale

Jensen Huang, cofondatore e CEO di NVIDIA, guida una delle aziende più innovative al mondo, in un settore, quello dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale, dove la velocità del cambiamento è impressionante. In una recente intervista al New York Times, ha dichiarato di aver modificato radicalmente il suo stile di leadership: “Oggi do meno risposte e faccio molte più domande. Facendo domande, costringo il mio team dirigenziale a esplorare idee che altrimenti non prenderebbero mai in considerazione”.

Attraverso il porre domande profonde, Huang ha capito che stimola il suo team a esplorare idee che altrimenti resterebbero inespresse, creando uno spazio in cui la curiosità diventa il vero motore dell’innovazione. Questo esempio illustra in modo concreto come il potere delle domande venga prima delle risposte e influenzi direttamente la capacità di innovare e di guidare il cambiamento.

Questa esperienza personale non è un caso isolato: rappresenta infatti una tendenza più ampia nel mondo della leadership. Come sottolineano nell’articolo recentemente pubblicato su Harvard Business Review “The Art of Asking Smarter Questions", il compito dei leader non dovrebbe essere quello di fornire tutte le risposte, ma di allenarsi a formulare le domande giuste. Le risposte, infatti, dovrebbero arrivare dai membri del team, dalle competenze distribuite nell’organizzazione.

Eppure, contrariamente a quanto avviene nella pratica quotidiana, la maggior parte dei manager tende a formulare sempre le stesse domande, condizionata dalle proprie esperienze passate, dalle convinzioni acquisite e da bias cognitivi più o meno consapevoli. Questo riduce drasticamente il ventaglio di opzioni esplorate e limita la qualità delle decisioni strategiche.

L’arte di costruire il set giusto di domande

Come emerge in “The Art of Asking Smarter Questions", la chiave sta nell’avere un repertorio più ricco, un “set” che copra le diverse dimensioni del processo decisionale. Hanno individuato cinque tipologie principali di domande, ognuna capace di aprire una finestra diversa sulla realtà.

1. Domande investigative – “Cosa sappiamo davvero?”

Sono le domande che mirano ad analizzare i fatti in profondità. Non si limitano a descrivere la situazione, ma scavano fino alle radici del problema.
Esempi utili:

  • Cos’è successo davvero?
  • Quali sono le cause profonde di questo problema?
  • Quali prove supportano il piano proposto?
  • Quanto è fattibile ed auspicabile ogni opzione?


Le investigative aiutano a evitare superficialità. Non basta dire che i ricavi calano: serve capire se è per il churn dei clienti, per il prezzo troppo alto o per la mancanza di innovazione.

2. Domande speculative – “E se…?”

Qui si apre il campo della creatività. Le speculative permettono di immaginare scenari alternativi e superare i confini del pensiero convenzionale.
Esempi pratici:

  • Quali altri scenari potrebbero esistere?
  • Potremmo agire in modo diverso?
  • Cos’altro potremmo proporre o semplificare?
  • Quali soluzioni non abbiamo ancora considerato?

Un celebre esempio riportato dall’HBR riguarda Emirates Team New Zealand, vincitore dell’America’s Cup nel 2017. Non si limitarono a chiedersi “e se usassimo la potenza delle gambe invece delle braccia per manovrare il catamarano?”, ma andarono oltre: “Cos’altro ci permetterebbe un sistema a pedali?”. Questo aprì la strada a un design rivoluzionario che consentì al team di superare avversari più blasonati.

3. Domande produttive – “E adesso cosa facciamo?”

Sono quelle orientate all’azione, fondamentali per valutare la disponibilità di risorse e la sequenza delle priorità. Senza queste, il rischio è di restare fermi alle idee senza mai passare all’execution.
Alcune domande chiave:

  • Qual è il prossimo passo?
  • Cosa dobbiamo raggiungere prima di compierlo?
  • Abbiamo le risorse adeguate?
  • Sappiamo abbastanza per decidere?

Un errore emblematico fu quello di Lego nei primi anni 2000: nel tentativo di reagire alla crescita dei giochi digitali, lanciò contemporaneamente troppe iniziative in settori diversi, senza chiedersi se l’azienda avesse realmente le risorse per sostenerle. Il risultato fu un periodo di gravi perdite.

4. Domande interpretative – “E quindi cosa significa?”

Sono le domande che aiutano a dare senso alle informazioni raccolte. Portano alla sintesi, riformulano il problema e collegano dati, scenari e obiettivi.
Esempi:

  • Cosa abbiamo imparato da queste nuove informazioni?
  • Cosa significa per le nostre azioni future?
  • Qual è il vero obiettivo a cui miriamo?
  • Come si inserisce questa scelta nella strategia complessiva?

Le interpretative evitano di perdersi nei dettagli. È il passaggio dal “cosa vediamo” al “perché è rilevante”. Sono il ponte tra analisi e insight, senza le quali anche il miglior lavoro investigativo rischia di restare sterile.

5. Domande soggettive – “Cosa non viene detto?”

Sono le più delicate e forse le più trascurate. Servono a far emergere emozioni, tensioni e resistenze latenti, spesso decisive nell’indirizzare le scelte.
Alcuni esempi:

  • Come vi sentite davvero rispetto a questa decisione?
  • Quale aspetto vi preoccupa di più?
  • Ci sono differenze tra ciò che è stato detto e ciò che si intendeva?
  • Tutte le parti interessate sono realmente allineate?

Molte strategie falliscono non perché siano sbagliate sulla carta, ma perché trascurano le dinamiche emotive e politiche all’interno dell’organizzazione. Le soggettive hanno il coraggio di chiedere ciò che spesso rimane implicito.

Domande e intelligenza artificiale: il nuovo vantaggio competitivo

L’AI ha reso questo tema ancora più centrale. Se fino a ieri il vantaggio competitivo era legato al possesso dei dati, oggi la vera discriminante è la capacità di formulare query intelligenti. Non è un caso che si parli di prompt engineering: senza domande ben poste, anche la tecnologia più avanzata restituisce risposte generiche e poco utili.

In altre parole, il valore non sta nell’informazione in sé, ma nella capacità di guidarla con le domande giuste. È un cambiamento culturale che influenza tanto le imprese tecnologiche quanto le PMI.

Una cultura che valorizza le domande

Favorire una cultura aziendale orientata alle domande significa incoraggiare collaborazione, fiducia e innovazione. Significa creare spazi sicuri in cui sia le intuizioni brillanti sia i dubbi possano emergere.

Molte crisi aziendali nascono non da risposte sbagliate, ma da domande mai poste. I segnali c’erano, ma nessuno ha avuto il coraggio di metterli sul tavolo. Allenarsi a chiedere, e a lasciare spazio alle domande degli altri, è quindi una pratica di leadership essenziale.

È su questo punto entra in gioco WhAI. Se la qualità delle domande determina la qualità delle decisioni, serve uno strumento capace di trasformare i quesiti in scenari concreti e misurabili.

WhAI non è semplicemente una piattaforma: è una metodologia che aiuta a identificare le domande davvero strategiche, a tradurle in simulazioni rigorose e a restituire risposte difendibili.

  • Per le PMI, WhAI è un navigatore strategico: guida imprenditori e manager attraverso scenari complessi, mostrando ROI, rischi e ritorni prima di impegnare risorse preziose.
  • Per le grandi aziende, WhAI rappresenta un superpotere decisionale: permette a leader e board di testare centinaia di alternative, stressare i piani e arrivare a decisioni trasparenti e condivise.

In entrambi i casi, WhAI non sostituisce chi decide, ma lo potenzia. È come avere un copilota che, partendo da una buona domanda, esplora tutte le rotte possibili e indica quelle più sicure, più rapide e più sostenibili.


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